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RACCONTI
 
 
STAGE GENERATION:
PAROLE AL TELEFONO IN TEMPO DI CRISI
 
 
Prendete la parola “cellulare”: ma voi lo ricordate, il suo significato, prima che indicasse il telefonino? Io, dopo neanche un anno, ero già in crisi: dimenticato, rimosso. E giù a rimuginare su come sia stato possibile vivere tanto tempo senza lo strumento infernale, almeno noi, noi che abbiamo nel nostro vissuto almeno vent’anni di pace, noi che della generazione ribelle raccogliamo ora i frutti migliori. E quando si contestava, dico ora, come si poteva mai protestare senza il telefonino? Adesso, nella mia ventiquattr’ore, ne porto due, quando non li dimentico con tutto il genere umano delle loro rubriche nel tipico posto introvabile di quando squillano e si sta aspettando proprio quella chiamata urgente e imprevedibile che cambierà il corso della più grama esistenza…
Anche quel pomeriggio di Natale fu così. La spiaggia, la pioggia, il telefonino e il migliore amico di lei che seguiva il dibattito parlamentare sulla fiducia ad un governo di sinistra. Non so più come finì, ma tutti quei maledettissimi squilli, quelli, li ricordo benissimo.
Una mia amica diceva che avrebbe resistito stoicamente fino alla fine, che non le andava di dedicare alle persone le briciole di tempo avanzato tra una azione e l’altra nel ritmo frenetico delle sue giornate romane.
Quando aveva voglia di rilassarsi e di tornare ad amare il mondo e quindi a parlargli – perché parlarsi è molto più che amarsi, sapete, parlarsi è il modo in cui l’amore si manifesta nel linguaggio –, lasciava la capitale e veniva a Sabaudia.
In realtà non riuscivo a immaginarla in riva al mare e nemmeno china sul lago nell’atto di specchiarsi il viso e le mani, forse perché la vedevo sempre costretta in quel diavolo di tailleur così poco femminile, l’armatura aziendale sotto la quale secoli di Bradamanti, di Erminie e di Clorinde si muovevano nei loro sinuosi corpi di donne in carriera.

- Se mi accompagni sul barcone, ti mostrerò l’approdo di Ulisse in queste terre.
- Paola, non so se potrò assentarmi dal lavoro nel fine settimana, vediamo.

Luca era un vero imbranato, anche se fingeva di no: non si decideva mai in nulla. Avevo scoperto un angolo di paradiso e ogni volta che ci tornavo non potevo non pensare a lui. Lì il cellulare non esisteva, guai a turbare la quiete del lago, anche perché non ci si poteva arrivare da quel viottolo: era p r o p r i e t à p r i v a t a . Bisognava passare, per la precisione, dal Villaggio dei Giornalisti e chissà in che modo la mano potente dell’Ordine aveva allungato la sua ombra su quella striscia paradisiaca dell’Eden latino…
D’inverno era magnifico. Non c’era nessuno a saccheggiare il paesaggio con le sue sudice orme di rapina e con quelle volgarissime cofane di insalata di pasta preparate la mattina prima di indossare costume e copricostume, pareo e pantapareo e venire al mare tutti colorati come se si pretendesse di competere con il cielo e con il sole.
Era tutto deserto, desolato come nel giorno conclusivo di una fondazione storica.

- Ah, Luca, finalmente sei arrivato! Appena in tempo per imbarcarsi…
- Ho fatto una corsa… sulla Pontina era tutto bloccato e quando sono arrivato qui ho sbagliato strada, mi sono ritrovato davanti a una chiesa piccolissima dove c’era una…
- Va bene, va bene, me lo racconti dopo, adesso vieni con me nell’Odissea…

Gli attori erano bravissimi e lo spettacolo talmente verosimile che, prima di capire che si trattava di una finzione teatrale, eravamo arrivati al centro del lago con il sole al tramonto, però il pensiero era rimasto fisso alla madonnina di legno che dal fondo di quella chiesetta sembrava bearsi e annuire dinanzi allo spettacolo della natura.
Paola mi raccontò che durante l’adolescenza, coi suoi amici, venivano spesso qui a organizzare degli scherzi… come quella volta in cui l’assessore alla cultura scivolò giù dal palco presenziando a una serata musicale estiva. La buccia di banana, l’avevano messa proprio loro i Setenevaitipentirai, stufi di restare a suonare per amici e parenti dopo essere stati abbandonati dalle personalità e dalla stampa per la sesta edizione: politicanti! Non capivano ancora che c’era bisogno di loro tra la gente, che i giovani non andavano abbandonati alle sole orazioni della Madonna della Sorresca.

- Be’, così avrebbero imparato!
commentò Paola quando cercai di protestare durante il racconto della sua piccola bravata di brigata. Sì, perché loro volevano fare gli alternativi, ma finivano sempre per prenderci un sacco di mazzate. Una volta ruppero addirittura il vetro di un’auto parcheggiata nelle piazzola di sosta sul lungomare per prendersi una borsetta con tanto di contenuto e di documenti. Peccato, perché trovarono solo Lavorare stanca e la Poesie del disamore di Pavese: il book-crossing in quegli anni non esisteva neanche da lontano nelle menti degli italiani e di scimmiottare la setta dei poeti estinti, poi, nemmeno a parlarne.
Nel frattempo sul barcone era salito anche lui, Odysseus. Si dovette proprio mangiare il fegato, l’attore, quando la prima della classe di turno gli rovinò, pronunciandola insieme a lui, la fatidica, sospirata, sussurrata, sognata, ultima battuta del monologo mitologico: me al largo/ sospinge ancora il non domato spirito/ e della vita il doloroso amore…
Paola nemmeno se ne accorse, il suo campo era decisamente un altro.
Chissà cosa faceva Luca, lì, attento e morigerato accanto a me su quella barca, quale diamine di pensiero doveva attraversare le sue meningi per allontanarlo in quel modo da ogni plausibile scopo di seduzione. Con la promozione a capo del personale, sai che difficoltà destreggiarsi con tutti quei numeri di buste paga, protocolli e contratti, non era proprio nelle sue corde, si vedeva lontano un miglio. Già, contratti, il sogno di ogni trentenne del terzo millennio, il miraggio di questa generazione di superlaureati destinati alle fotocopie dai generosi padri della rivoluzione giovanile dal 30 politico che non si decidono a mollare le proprie poltrone neanche con la minaccia di una pensione da riscuotere per la prima volta nell’oltretomba. E quale Orfeo tornerebbe allora a recuperare la sua Proserpina sessantottina?
Ma Luca ce l’aveva fatta, anche perché non era un trentenne della stage generation e la promozione era ormai soltanto questione di pochi giorni, insomma una mera formalità.
Ormai tutti applaudivano entusiasmati dalla performance sul barcone e anche noi ci alzammo per sbarcare.
Baciammo la petrosa Itaca aziendale appena il giorno dopo, uno dei terribili lunedì lavorativi nel mirino di adulti e meno adulti, dopo una serata di magia sotto la luna di Circe.

- Era stata un’illusione… addio contratto a tempo indeterminato, lo sapevo.
- Ma Paola, te lo dico sempre che a sgualdrineggiare col capo ci si guadagna poco e non provare a darmi della moralista. Di cosa si lamentano le donne se del proprio sesso fanno la sola arma contro il potere del maschio dominante?
- Smettila con questi slogan da gramigna, Giulia, questa volta non è come pensi.
- Ah no? E com’è?
- E’ che, nonostante le mie iniziali pessime intenzioni, questa relazione è diventata importante.
- Nonostante il playbambino e la sweetmoglie?
- Mhhh… cosa vuoi che mi importi della sua famiglia? Ce l’avremo mai noi una famiglia? Se per permettersi un figlietto, dobbiamo diventare delle floride quarantenni… E’ un istituto ormai antiquato, comincia a metterlo nello scontro generazionale per quando ti scornerai con la tua pupa adolescente…
- Va be’, guarda, se hai intenzione di continuare su questa linea, magari ci salutiamo, però, ti ricordo che sono già tre anni che va avanti questa manfrina e che non ti ho sentita felice neanche una volta da quando è cominciata. Perché non pensi a qualcosa di più serio?
- Tipo?
- Tipo che tra un mese si vota per le politiche, tipo che se continui a sostenere coloro che lottano per il precariato, passerai pure i prossimi quattro anni in stage non retribuiti.
- Già, le politiche, non ci posso pensare. Io lavoro e l’azienda guadagna. Non poteva darli a me, quei soldi, lo Stato?
- Sai, Paola, il vero problema è che quasi tutti i partiti agiscono in questo senso. Solo ultimamente sembra pentirsi anche la sinistra, però bisogna vedere fino a quando… Magari informati un po’, poi decidi. Certo difficile isolarsi al punto di non accorgersi del cancan dei media che, da quando siamo in campagna elettorale, non parlano d’altro…
- Pensa come sto! Va bene, allora sai cosa faccio adesso? Magari chiamo Luca e ne parliamo, tanto mi ha detto che nel fine settimana viene a Sabaudia in quella casa che ha comprato quell’anno che è diventato direttore del personale.
- Ecco, non avresti potuto partorire idea migliore, mi complimento. Vieni con me a sentire il ministro delle politiche sociali piuttosto, terrà un incontro pubblico con la stampa proprio domani mattina.

Quei due avevano un rapporto a pelle veramente distruttivo e pensare che non si erano neanche mai incontrati.

- L’ironia di Giulia non mi è mai piaciuta, Paola, te l’avevo già detto? Parla come se la realtà fosse tutta bianca o tutta nera, come se scegliere fosse facile…
- Lascia stare questi discorsi, Luca, sono anche banali volendo.
- Scusami Paola. Tra poco sarò da te in ogni caso, ne riparliamo, se vuoi. Ci vediamo davanti alla Villa Romana tra una mezz’ora.

E di nuovo era Natale, il quarto, tra discussioni e lacrime inutili. Cosa mi aveva detto la testa quando mi innamorai di lui, non lo so ancora. La mezz’ora sembrò un’eternità, ma anche quel pomeriggio fu così. La spiaggia, la pioggia, il telefonino e la migliore amica di lui che seguiva il dibattito parlamentare sulla fiducia ad un governo di destra.
Sono dieci anni che torno qui ogni inverno quando piove. Mi siedo sulle scale di legno che passano sulle dune e ascolto, ascolto il presente, perché ogni storia trae la propria luce e la propria intensità dal presente e serve, nel suo significato più profondo, solo al presente. Il freddo, i passi, le orme, il viola, gli uccelli… non so nemmeno più come finì, le mie parole erano incendi/ le mie parole eran pozzi profondi/ verrà un giorno un giorno improvvisamente/ sentirai dentro di te/ le orme dei miei passi/ che si allontanano/e quel peso sarà il più grave. E non ricordo altro, ma tutti quei maledettissimi squilli, quelli, li ricordo benissimo.


Special guests: G. Pontiggia, B. Croce, N. Hikmet, U. Saba

Pubblicato su "Dire Fare Scrivere", n.1, 2006 con un commento di Angela Verzelli: http://www.bottegaeditoriale.it/Linedito.asp?id=42
 
 
LATINA - VITTORIA
 
 
- No, vede, il piano regolatore presentato dall’architetto non incontra gli interessi delle lobby pontine, ecco perché non viene approvato.
- Ma quali lobby, figuriamoci! E poi, guardi, bisogna stare attenti con certe affermazioni, attenti.
- Eh, lo diceva sempre la buon’anima: “Chi si fa i fatti suoi campa cent’anni!”
- Mhhh, ma non era : “Me ne frego”?
- Abbiamo voglia di cavillare stamattina, ragioniere… E non è la stessa cosa? Chi si fa i fatti suoi, volente o nolente, se ne frega, no?

Era lo stralcio di una normale conversazione di una mattina qualunque, senza neanche il mercato del martedì, per intenderci. Certo che la buon’anima questa citazione popolare prima o poi l’avrà fatta nella sua vita, vogliamo negare? E certo è pure che la cultura politica media ne avrebbe beneficiato a piene mani di uscite di questo genere, non vorremo mica star qui a sindacare…perché, per quello, ci pensano i giornalisti.
Uno era proprio lì, al circolo cittadino, tutto impegnato a fare il vago fingendo quell’aria distrattamente parabolica come le antenne delle pettegole di paese mentre filano sull’uscio in piena estate. E, sempre lì, teneva in mano svogliatamente uno di quei finti quotidiani pieni di pubblicità vera.

- Eh perché gli sponsor pagano, sai, perché agli sponsor interessa soprattutto che il giornale sia let … ehm… guardato. Stavo per dire letto… ingenuo, trent’anni di onorata professione e per quanto un uomo abbia imparato non deve dimenticare che è ancora al primo foglio, quanta ragione aveva il saggio!
- Ma non era un filosofo?
- E cosa avresti da obiettare, se non è saggio il filosofo...
- Già, è vero. Comunque concordo: nell’era di Internet, non si può pretendere che il povero cittadino interessato a scoprire quanto gli accade intorno si trovi a dover brigare con tutto quel petrolio e quell’inchiostro presente nella carta stampata, no, guarda, neanche la medicina è più in grado di stabilire quale dei due danneggi di più la respirazione. Una sbirciatina alle figure, quel che basta a riconoscere il davanzale della dirimpettaia, è più che sufficiente mi pare.

- Certo. E poi bit e byte sono meglio ecocompatibili, sono anni ormai che sostengo questa crociata, anzi, visto che ti trovo così d’accordo, sai che faccio? Quasi quasi ti propongo “commander in chief” di questa redazione, come dire, commander in chief e…in chef: sarai d’ora in poi il mio braccio destro…se preparerai anche il pranzo.
- Oh, no, direttore, vogliamo scherzare? Non sopravvalutarmi, sono ancora molto giovane, ne ho di strada da fare… e poi, sempre a mangiare pensate voi uomini? Mumble mumble…però questa storia che noi, noi donne, ci immaginate sempre con la parannanza tra frullatori e fornelli, più che uno spuntino, mi dà uno spunto! Farò un pezzo di colore oggi, che ne dici? Anzi no, una rubrica: gastronomia e pari opportunità: il binomio vincente della donna moderna.
- Mi stupisco sempre di più del tuo genio Elfrida, appena possibile ti candido al Pulitzer, parola mia. Lascia che questo benedetto cellulare cessi di squillare e ti prometto che ti candido al… al… Pronto? Pronto?

E poi dicono che la tecnologia ti abbandona proprio nei momenti migliori. Per quella telefonata salvifica, io, alla moglie in preda all’isteria per il neonato piagnucoloso, darei proprio un premio, a lei sì, un Oscar, un monumento: “Alla signora Linghetti per aver salvato la cittadinanza da una conversazione molesta” e soprattutto per aver salvato, dal racconto di una conversazione molesta, i miei venticinque lettori!

- Non sarebbe più saggio, se ti facessi i fatti tuoi anziché di andare in giro a raccontare le gesta altrui e, per giunta, per iscritto? Scripta manent, che cosa ti ho mandato a fare scuola? - mi ripete ancora la mi’ mamma da quando ha capito che in questa città il mio futuro va compromettendosi sempre di più.
- ‘Un tu voi finir punto manganellato te?! ‘Un si fa mica per burla in este zone costì, bada! Aggiungeva la mi’ nonna, che la Resistenza, nel casolare maremmano dove era cresciuta con altre sei sorelle, non l’aveva mai dimenticata.
- Tanto il premio, ‘un lo vinci! - mi stuzzicava mentre ero lì e scrivevo e scrivevo immaginando le facce di chi si sarebbe riconosciuto nella storia. Perché la mi’ nonna, dovete sapere, l’italiano, lo sapeva, anche se non era brava a scriverlo.

La signora Linghetti, nel frattempo, doveva aver dato al giornalista una notizia senza pari, altro che Pulitzer. Pareva, infatti, che in consiglio comunale si stessero discutendo misure molto urgenti per la sicurezza della città. Qualcosa di grosso bolliva in pentola, oltre che la pappetta della creatura irrequieta. Il mio caffè, in compenso, finì di raffreddarsi, ma dovevo sbrigarmi, al Palazzo aspettavano notizie.
Dopo qualche minuto ero immerso nella sala consiliare. La seduta doveva ancora iniziare, così studiavo la fauna sfogliando distrattamente un giornale. L’avevano fregato, sì, il direttore al bar, l’avevano battuto sul tempo, ecco lo scoop che doveva essergli arrivato con un certo rispettabile ritardo al telefono:


AVVISTATI OGGETTI
NON IDENTIFICATI IN CITTA’

I TESTIMONI RACCONTANO LA LORO VISIONE
SOCCORSI DAL GESTORE DI UN NOTO PUB LATINENSE.


Questa sì che era bella. Se lo sapesse la mi’ nonna, che è sopravvissuta alla seconda guerra mondiale, stavolta non ce la farebbe. Ecco come si spiegava tanta agitazione! Il suono della campanella del cerimoniale sembrò liberatorio e l’ordine del giorno non sembrava imporre alcuna logica al caos degli interventi alterati dei consiglieri: era vero, si discuteva di sicurezza. Già, sicurezza, come l’undici settembre, come lo scudo spaziale, come i voli cancellati dagli aeroporti, come i kamikaze della Jihad.
Se è per questo, a Latina, si possono dormire sonni tranquilli: non c’è l’aeroporto. Tutt’al più si poteva temere un attacco dal parapendio di Norma e a sessant’anni da Hiroshima non si può mai dire.

- Cittadini…

anzi no:

- C i t t a d i n i ! – esordì il sindaco – la città corre un grave pericolo.

E proprio al culmine della solennità di quel momento consacrato dal tricolore del sindaco e dalle lunghe e cadenzate pause del suo discorso ridondante, si udì un suono lievissimo e intenso provenire dal fondo della sala:

- PPPPPPPPRRRRRRRRRRRRRRRRR!
- Ma signorina! - si impose fiera l’agente di polizia municipale magicamente assunta con tutte le vigilesse che ingrossarono la claque del sindaco il giorno dell’insediamento post-elettorale – Le sembra conveniente?!? Esprimersi così, in pubblico, durante il discorso d’apertura dell’onorevole Picchiabotte? Guardi che gli ultimi che hanno mietuto vittime col gas sono stati i nazisti!
- Sa, agente, soffro di una grave patologia intestinale, lei comprende… - confessò l’elegante signorina che ebbe quel guizzo di genio, con un’espressione finto-mortificata dalla smorfia tragicomica.

I consiglieri scoppiarono in una risata di una coralità fantozziana, quelli dell’opposizione, si intende, perché invece gli altri, tutti compassati com’erano nei loro impeccabili doppi petti, sembravano donne settecentesche compresse nei lacci del corpetto del bon ton. Uno accusò uno shock anafilattico. Era stato di sinistra fino al giorno prima, ma la maga Circe in sogno gli aveva annunciato la sua fine e così, prima di morire, prese la tessera di Forza Italia. Un vero partigiano, non c’è che dire.
Ho tuttavia il sospetto che pochi compresero l’umorismo come mezzo pacifico di risoluzione dei conflitti, forse perché non conoscevano la migliore letteratura sul motto di spirito. D’altra parte se gli editori locali preferiscono l’agronomia e la storia della bonifica, i risultati poi si vedono...
La verità è che le donne ne sanno una più del diavolo. E se non la sanno, la inventano. Era un modo di protestare, ecco, visto che nei partiti contavano come il due di picche e servivano solo a riempire le candidature nelle liste elettorali di turno. Quando la signorina in questione si voltò verso di me, mi passò per la mente di averla già vista da qualche parte. Sì, ecco, anche lei era un’inviata, dovevo averla incontrata a Palazzo, dopo un po’ mi accorsi, infatti, che portava inciso sul lato interno del polso un codice a barre. Non l’avevano asportato a una commessa della Benetton, no, il segno era chiaro.

- Pronto?
- Allora, com’è la situazione lì?

mi interrogava l’onorevole dalla capitale.

- Com’è, onorevole? E’ che qui ci sarà uno sbarco a breve.

che in gergo significava: “Adesso vedono i sorci verdi!” , i sorci, non i verdi, ‘ché i verdi in consiglio comunale non hanno neanche un seggio.
Non avevo finito la frase che Miss Contestoconilgas aveva lanciato un lacrimogeno proprio al centro della sala: a dispetto di tutta la sicurezza del mondo, l’oggetto non identificato era proprio lì, nel cuore istituzionale della città.
Appena il sindaco riprese fiato, facendo ricorso a tutte le sue energie, disse:

- C i t t a d i n i!

e poi se l’ebbe a male, perché quella specie di radioattrezzo non si degnava neanche di una reazione non verbale. Era lì e “guardava” le vigilesse nella notte che era scesa improvvisa sull’impianto elettrico del municipio, quando cominciò a seminare manciate di pulci nelle loro calze di nylon. Poi cercava le consigliere, ma non le trovava.
Al museo avevamo ricevuto una segnalazione e un noto onorevole del quale non posso rivelare il nome, ma che crede negli extraterrestri e nel paranormale, mi aveva chiesto il favore di tenerlo aggiornato.
Intanto l’Ufo aveva cominciato a tremare e a produrre strani suoni. Le uscite della sala furono bloccate improvvisamente e l’unica via di scampo era tapparsi nelle toilette. La porta del bagno fu infallibilmente quanto tempestivamente infilata dall’on. Picchiabotte che, per non cadere nella tazza, si aggrappò prontamente allo sciacquone e vi restò avvinghiato come ad una liana finché l’allarme non fu rientrato.
Il giorno dopo, tutto era tornato come prima, tranne la signorina col codice a barre, che nel frattempo era diventata mia moglie – i miracoli della politica -. La mi’ nonna impazziva di gioia, mentre io mi aspettavo da un momento all’altro di vederle crescere le antenne.
Dopo qualche giorno, incontrai, al Caffè degli artisti, un regista che aveva avuto notizia del mio resoconto al museo e che mi chiese di poterlo usare come canovaccio per il suo nuovo film: “Latina Vittoria”, peraltro l’unico risultato che si potesse calcisticamente realizzare solo al cinema. Lo vedrete presto nelle sale dei nostri multiplex.


Pubblicato su: http://www.chatlatina.net/index.php?option=com_content&task=view&id=391&Itemid=46
 
 
PAROLE IN CORSA
RACCONTI NEL TEMPO DI UNA FERMATA
 
 
Lasciando la città dei fiorentini, come amava dire Luisa de’ Medici, non provai alcuna nostalgia. Bellezza e cultura, talvolta, non sortiscono effetti sul cuore dell’uomo. Almeno questo era ciò che vedevo quando i vecchi insultavano sugli autobus stracolmi i ragazzi delle scuole che, a non ceder loro il posto, vi dirò, facevano proprio bene. Bisognerà pur meritarselo il rispetto, vivaddio. Il pensiero si rivolgeva piuttosto alle persone, invero non molte, che avevano camminato con me per un tratto di strada. Erano tutti importanti i sentieri in quegli anni. Per loro avevo deciso di raccontare questa storia.
Il mio futuro, però, non era lì. Dopo la laurea, nessuna anticamera. Fino a qualche anno fa, noi ingegneri avevamo le porte aperte dappertutto e ci sentivamo pure un po’ più che superiori agli altri - forse perché le tasse delle facoltà scientifiche erano più care -, ci davamo le arie dei sapientoni radical-chic. Naturale che non mi sottraessi a questa vanteria, la trasformavo in falsa modestia solo per piacere alle ragazze. E per questo ero disposto finanche a improvvisarmi autista, col placet di qualche ferrotranviere massacrato dai turni di lavoro. Quella volta che ci provai per Roma fu un vero disastro. Gli stessi passeggeri furono costretti a indicarmi la strada, se speravano di rientrare a casa in tempi accettabili. Non fu l’unica occasione. Sulla tabella della fermata vidi l’avviso del concorso: “Parole in corsa”, una scusa come un’altra per tentare una vana riabilitazione dei trasporti pubblici, e con me lo stavano leggendo altre persone. Salimmo sul tram osservandoci curiosamente.
Era così bello stare tra la gente, anche se si litigava, sì, se si faceva a spintoni e se la vettura non rispondeva a nessuno dei requisiti previsti dalla normativa in materia di sicurezza e di igiene. Eppure, come ingegnere dei trasporti, un minimo scrupolo avrei dovuto farmelo venire, ma ero troppo divertito. Mi dicono sempre tutti che sono un irresponsabile, finirà che un dì diventerò ministro.
Da quando ero stato trasferito nella capitale, la sera era tutto uno spasso e non vi dico il giorno. Voglia de lavora’ saltame addosso, come si dice. Solo che nel mio ufficio non erano esattamente contenti. Certo, il mio capo non si lamentava – mi aveva preso troppo a ben volere – e le colleghe stravedevano per potermi sbugiardare in giro. I miei colleghi uomini, però, non erano che un coacervo di invidia strisciante e trasudata, soprattutto quelli che si ritrovavano privi di mogli, di capelli e di una qualsiasi passabile forma estetica e colmi di soldi, di grasso e di potere. Se siete tra coloro che credono i maschi sempre solidali e complici, questa volta prendete un granchio, miei cari.
- Ma dov’è quell’incapace di Giorgio? Giuro che se tra dieci minuti non lo trovo dietro quella sua stramaledetta scrivania, questa volta lo faccio licenziare in tronco!!!
Sapevo ogni parola, perché Gianna non si risparmiava in pettegolezzi e in gustose risate.

- La palla di lardo, Gio’, la dovevi sentire come sbraitava, quell’inebetito masso di cialtroneria e stupidità…

A lei stava antipatico, per usare un bieco eufemismo, perché le aveva preferito la ruvida e noiosa fedeltà coniugale, un affronto che nessuna amante potrebbe tollerare, tanto meno una di quelle donne che ti fanno impazzire e poi scompaiono senza darti più nessuna grana, di solito con figli e famiglia, realizzate abbastanza da non accampare altre pretese, per dirla in breve. E non mi dilungo in una dettagliata analisi anatomica della summenzionata Gianna solo perché la sua avvenenza era un dato scontato.
Era esattamente la tipa che, a incontrarla alla fermata, con la sua morigerata gonna al ginocchio, saresti stato pronto a scommettere che tradiva il marito dal secondo giorno di matrimonio. Quel che suscitava ilarità era quel suo sorriso così spontaneo come chi voglia insistere – Be’, che c’è di male?!? – . Quasi quasi, ci sarei andato a letto pure io, solo per premiarla, perché queste persone, vedete, queste persone che la società giudica e condanna non sono poi peggiori di chi la libertà non l’ha neppure mai sognata. È la disgregazione che sperimentano e sanno bene, loro sì, che nessun legame garantisce più della frammentarietà delle situazioni e della libertà frivola e sbarazzina che si impossessa delle donne e degli uomini quando non credono nella durata e nella stasi dei giorni sempre uguali a se stessi, nella noia delle certezze infine.

- Giorgio, me la vai a prendere tu la ragazzina a scuola? Guarda, ci passa giusto il 450, tieni, ti do le chiavi, dai, non lo dico a Palla Di Lardo!
- D’accordo d’accordo, mi hai convinto, vado.

Sul tragitto, scene della migliore filmografia global-style. La “bambina”, tatuato per benino il tatuabile, era lì ad assaggiare il pearcing di un tipo un po’ sfigato, ma di tendenza. Non avrei detto nulla alla madre nemmeno sotto tortura: è giusto che ogni generazione viva le sue esperienze.
La strada del 450 la conoscevo bene ormai, perché Gianna aveva affidato a me la missione che né padri, né amanti avevano voglia di espletare. Vedete a cosa servono gli amici? Poi dicono che sono inaffidabile. Solo perché non mi decido al grande passo.

- Non glielo vuoi dare alla mamma un nipotino bello come te? E cosa ti ho cresciuto a fare, se non mi dai una discendenza?
- Abbi fede e ne avrai una numerosa come le stelle del cielo, ma’.

Parlare come Dio ad Abramo mi inebriava tutto l’ego, quasi di più di quando si parlava con quei miserrimi studentelli di Filosofia ai tempi dell’università, sempre a farfugliare inutili sofismi che la sacrosanta praxis sgominava in quattro e quattr’otto. Tornando comunque alla mia mamma, figli, per me, quanti ne voleva: naturali, legali, artificiali… il punto era la moglie, ma su questo, grazie al cielo, non aveva pretese. Gliene bastava una.
Eh, ma a me no… e pensare che dopo quel fatidico 13 maggio non sarebbe nemmeno stata ammessa la fecondazione eterologa, mica come in Inghilterra che un ragazzino tra una vicenda ormonale e l’altra di madri poteva pure averne tre.

- Trasferisciti ad Algeri.
- Ad Algeri? E perché?
- Lì non dovresti incontrare di questi problemi.
- Che stupida, ma vuoi finirla? E come faccio poi ad Algeri senza di te?
- Ah, guarda che con me non attacca. È proprio una questione chimica…
- A te, Quark, ti ha fatto male, Gianna mia, ma quante serie ti sei vista? E poi, non lo sai che la stagione degli amori per gli umani non ha intervalli predefiniti?
- Ah già, gli “umani” lo fanno di default, dimenticavo!
- Andiamo via insieme oggi?

Abitavamo vicini io e Gianna. Tutti e due al Tiburtino. Col 545 ci arrivavamo in un attimo, in un attimo quando non sono le sei di sera per intenderci.
La giornata era finita bene, bene, fino a quando non squillò il telefono di casa mia in tarda ora. Era la Gianna. E la Gianna non trovava più la ragazzina. Ecco l’inizio di una serie di anomalie nella catena neuronale della mia amica che produssero scenari alquanto improbabili.

- E se è finita tutta blu di eroina nel cofano di un’auto a Centocelle?
- Gianna, dov’è tuo marito?
- E cosa vuoi che mi importi di lui in questo momento? Starà puttaneggiando con qualcuna delle sue amanti su una sbrilluccicante e anonima terrazza di Roma… Giorgio, scendi, vieni con me a cercarla.

Non sapete che Gianna, la macchina, non ce l’aveva e che un’impresa del genere il trasporto pubblico nazionale non era in grado di garantirla. La trascinai dunque alla polizia e subito dopo, chiavi alla mano, cominciammo l’esplorazione di tutte le linee urbane e di tutti i depositi della capitale, perché la ragazzina neanche lei era motorizzata e il tipo sfigato col pearcing, col quale ragionevolmente poteva trovarsi, apparteneva a una di quelle “famiglie bene” che mandano i figli a scuola camuffati da straccioni e poi abitano in un lussuoso attico dietro il Pantheon.
Passò la notte intera. La paura giocò a me e a Gianna uno scherzetto tale che diventammo amanti prima che sorgesse il sole, quando i telefonini erano ormai scarichi e il carburante esaurito.
Intanto, Noemi, dormiva placidamente. Quando Gianna la scorse nel letto, non se ne capacitò. Era lì esattamente dalla sera prima: a casa.

- Mamma, dormivo in soggiorno con Jo, ci siamo messi lì per non disturbarti…, ebbe l’ardire di spiegarle al primo terzo grado che le imponemmo - ormai anch’io senza più remore - al suo scarmigliato risveglio…

- E Jo?
- Non lo so, mi sono addormentata e poi…

La “bambina” non si era mai mossa, capite? Gianna stava veramente alla frutta e più se ne rendeva conto, peggio era. Rimasi con lei tutto il giorno e tutta la notte e poi tutto il giorno e poi tutta la notte a pensare a quante volte avevamo visto sorgere il sole sul Campidoglio da un autobus in piena estate e cioè molto presto, senza che fosse capodanno o pasqua o carnevale, ma che fosse lunedì, martedì, mercoledì giovedì, venerdì e poi, infine, tutta la vita.
Un giorno celebrarono in tribunale l’ultima udienza del suo divorzio e un altro giorno celebrammo in una chiesa la prima messa del nostro matrimonio, perché, se non si può dire che eravamo cattolicissimi, però, in Dio, alla lontana, ci credevamo. E gli amici a dire che eravamo rimasti incastrati come tutti i comuni mortali che fino a tre mesi prima schifavamo.

- L’amore è un sentimento da uomini piccoli, disse un giorno Gianna guardando una coppia di giovani mano nella mano su una comune via di provincia.
- Perché?

Davvero non capivo.

- Perché tra quei passi e tra quelle mani passa solo il sentimento di un uomo per una donna e di una donna per un uomo. Nient’altro. E da quel ponte così stretto la libertà non può che mettersi un sasso al collo e lanciarsi nel fiume.
- Cosa vorresti, invece, tu, lì in mezzo?
- Lì intorno vorrai dire.
- Lì intorno dunque…
- Ci vorrei l’amore per l’uomo, un amore umoristico che sapesse ridere dei suoi difetti ed accettare i suoi limiti.

Pensare che quella era la stessa Gianna sbarazzina e fedifraga di tre mesi prima… chissà cosa era successo nella sua testa matta.

- Perché mi guardi così? -mi domandò leggendomi il pensiero - la libertà non si sposa a niente, neanche all’infedeltà.
- Devi proprio esprimerti come un oracolo? le chiesi sorridendo.

A lei piaceva, perché quando scomodavo un lessico appena sopra le righe si sentiva importante.

- Voglio dire che forse sono solo fasi, momenti in cui si sperimenta il male per conoscerlo ed accettarlo e forse superarlo e vincerlo di nuovo un giorno. Non possiamo saperlo.

Non partimmo per un viaggio di nozze, troppo convenzionale. Sposati sì, ma niente maschere piccolo-borghesi. Il giorno dopo, trovammo Palla di Lardo immusonito perché non era stato invitato non so dove. In chiesa solo pochi intimi e poi una cena sobria nella sua eleganza sull’attico. Noemi era contenta perché le stavo simpatico e perché sapeva che non le avrei trasformato la mamma in una sguattera qualunque.
Tutto quello che osai proferire, come in quella notte interminabile in cui la cercavamo disperati sulle linee di tutta Roma era: niente. Capite bene, però, che allora questo racconto non dovrebbe esistere, ma non è colpa dei comuni mortali metropolitani se, tra un ritardo e l’altro, se, tra una corsa e l’altra, il fiato non basta più e che di parole, quando si va di corsa, non c’è respiro che possa soffiarle via nell’aria.
Un noto scrittore scrisse una volta che la vita dell’uomo è tutta una lotta per conquistare l’orecchio altrui. In questo caso non è vero.
E io, le mie parole, le risparmio per quando ho tempo. Così non perderò il prossimo autobus e vincerò il prossimo concorso, che si chiamerà “Parole in poltrona”.


pubblicato sul n. 4 di Toilet: http://www.toilet.it/racconti/num4/parole_in_corsa.htm